Siete riuscite a resistere fino a oggi senza cedere alla tentazione. Bene, anzi male. Perché a questo punto, davvero, vi toccherà abdicare e cedere a questo più che comprensibile desiderio. Il cappotto effetto orsacchiotto, affettuosamente chiamato Teddy Bear, reclama un posto nel vostro guardaroba. Perché sa che quel posto gli spetta di diritto.
Lanciato, con una geniale intuizione, nel 2013 da Max Mara (del nick name Teddy Bear può fregiarsi dunque solo il brand italiano), il cappotto morbido come un abbraccio e tenero come un peluche ha conquistato, immediatamente, schiere di fan. Ma l’onda del suo successo si è dimostrata lunga, rendendo il capospalla la più valida e divertente alternativa ai soliti cappotti. Che, al suo confronto, risultano inevitabilmente un po’ noiosi e paludati.
Perché il segreto del successo di questo cappotto coccoloso e puccettoso (due aggettivi orrendamente onomatopeici concedeteceli) sta tutto lì: nel suo saper sdrammatizzare, nel donare un tocco ironico anche al più austero degli outfit, nel restare in magico equilibrio tra fake fur e real cappotto. Nell’essere duttile, pratico (soprattutto nella sua versione cocoon e oversize, la migliore!) e, soprattutto, transgenerazionale. Dai 18 agli 80 e passa: appoggiatevelo sulle spalle e vi sentirete immediatamente di non poterne più fare a meno.
Nel corso delle stagioni anche la gamma di colori si è sensibilmente ampliata, come ben dimostra ancora la passerella di Max Mara. Non solo cammello, dunque, ma largo ai rosa e ai gialli, all’ottanio e al blu. E, come si conviene a ogni straordinario successo, molti sono quelli che al Teddy Bear si sono ispirati, per proporne versioni «simili ma diverse». Spazio al pile, allora, i cui batuffoli arricciati bene imitano il pelo degli orsacchiotti. Spazio anche alle versioni low price, in materiali evidentemente meno nobili, ma dal medesimo scenografico effetto.
Per arrivare alla versione estrema di Vivetta, che il tema orsetti lo prede alla lettera. Omaggiando Franco Moschino e Jean-Charles de Castelbajac. Ma questa è un’altra storia ancora.
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