Comunicare con gli abiti, è quello che sanno fare meglio altrimenti non avrebbero ottenuto la nomination all’Oscar per i costumi migliori. Del red carpet degli attori, dei registi e degli artisti sappiamo quasi tutto ma rimane ai margini del cancan mediatico quello che hanno da dirci gli outfit di chi passa mesi, se non anni, a immaginare mondi in cui perdersi per il tempo della visione di un film.
Come in tutto ciò che si muove a Hollywood, tra i lustrini della madre di tutte le cerimonie si annidano storie che meritano di essere raccontate. E lo facciamo in attesa di scoprire chi scoprire i vincitori della 93esima edizione dei premi Oscar in programma il prossimo 25 aprile: tra i candidati quest’anno per la categoria c’è un italiano. Si tratta di Massimo Cantini Parrini, il costumista che ha dipinto con tessuti e colori l’universo del Pinocchio di Matteo Garrone.
Dove ci sono i riflettori, di solito c’è anche l’impegno. Negli ultimi anni alcune costumiste hanno scelto di attraversare quel tappeto con battaglie che stanno loro a cuore. Agli Oscar del 2020, la plurinominata nonché pluripremiata (quindici nomination e tre premi ottenuti per Shakespeare in Love, The Aviator e The young Victoria) Sandy Powell si è presentata con un completo bianco trasformato in una tela.
Non erano scarabocchi quelli che indossava ma autografi delle più importanti celebrità incontrate per premiazioni dei mesi precedenti. La giacca dagli ampi revers e i pantaloni larghi e svasati sono opera dell’artigiano della moda Ian Frazer Wallace che con The Whitechapel Workhouse, il suo atelier specializzato in costumi sartoriali, l’aveva già vestita nel passato. La buona causa in questione era il salvataggio del cottage di Derek Jarman, regista inglese oltre che suo amico e mentore scomparso nel 1994, per farne una residenza per giovani artisti e un presidio per la custodia della sua memoria. Messo all’asta, l’abito ha raccolto 16mila sterline.
Su quello stesso red carpet, Arianne Phillips ha voluto portare il tema della moda sostenibile sfoggiando un upcycling di lusso. La costumista si è affidata all’amico Jeremy Scott, direttore creativo di Moschino, il quale le ha suggerito di recuperare l’abito con cui otto anni prima aveva calcato lo stesso red carpet per la nomination ottenuta per il lavoro fatto su W.E., il film sull’amore tra Edoardo VIII e Wallis Simpson.
«È il vestito che ho più amato nella mia vita» confessò «l’ho disegnato con Juan Carlos Obando ispirandomi a Elsa Schiaparelli, la stilista da cui ho imparato molto occupandomi dello stile di Wallis Simpson, essendo stata una delle sue preferite della duchessa di Windsor». Arianne Phillips, stretta collaboratrice di Madonna, è stata la prima fashion editor a migrare da New York a Los Angeles per diventare una costume designer piuttosto affermata oltre che engagée: è infatti la co-fondatrice di RAD, acronimo di Red Carpet Advocacy, un’organizzazione che supporta campagne da illuminare col riflesso del tappeto rosso.
C’è poi chi si mette il vestito buono o ciò che ritiene più adatto per conciliare personalità e prestigio dell’occasione. Nel 2007 Patricia Field, il genio che ha contribuito alla costruzione all’iconico guardaroba di Sex and the City, candidata all’Oscar per Il diavolo veste Prada non doveva far altro che chiedere a una maison a caso del pianeta. Lei invece ha scelto di immergersi da capo a piedi nel colore delle grandi occasioni con un vestito creato da un collega, il costumista David Dalrymple, aggiungendo una collana vintage di Bvlgari.
Preferiscono un profilo basso ma per questo non meno elegante, rockstar del settore come l’italiana Milena Canonero, Jacqueline Durran e Collen Atwood, un’altra recordwoman che con le sue dodici candidature e quattro statuette (Chicago, Memorie di una Geisha, Alice in Wonderland e Animali fantastici e dove trovarli) è una habituée della serata degli Academy Awards.
Tuttavia oltre a chi si limita a un abito da sera purchessia, stando a quanto riportano le cronache, sappiamo che numerose costumiste si portano dietro alla premiazione pezzi di set, ognuna alla sua maniera. Nel 2019 Ruth E. Carter, la prima afroamericana ad avere conquistato l’Oscar nella categoria best costume design con Black Panther, ha lasciato che il suo outfit sontuoso fatto di strascichi, maniche a sbuffo e broccati citassero l’immaginario del film.
Nello stesso anno, Alexandra Byrne, si è presentata con un abito nero, spezzato nella sua linearità con un’impalcatura sui fianchi degna di Maria Stuarda, la protagonista del film per cui era candidata, Maria regina di Scozia. Il vero coup de théâtre è che quel capo è disegnato da Elizabeth Emanuel, la stilista che insieme al marito David, è entrata nella leggenda firmando l’abito da sposa di Lady Diana.
Con le sue quattro statuette non solo per i costumi ma anche per la scenografia, Catherine Martin è la australiana più premiata nella storia degli Oscar. Nel 2014 ritira i premi per Il grande Gatsby (gli altri due Oscar sono per Moulin Rouge, entrambi i film diretti dal marito Baz Luhrmann) fasciata in un abito floreale color salmone con ricami in cristalli di Prada. Miuccia, sia come Prada sia come Miu Miu, aveva realizzato per quella pellicola una quarantina di capi su misura attingendo alle sue collezioni dei venti anni precedenti.
Tra i look più stravaganti passati su quel tappeto, va annoverato di sicuro quello di Rita Ryack, in versione Babbo Natale fuori stagione: nel 2001 la candidatura del resto l’aveva ottenuta per Il Grinch. Non fu da meno Lizzy Gardiner che con il suo colpo di testa entrò nella storia per avere indossato uno degli abiti più memorabili al contempo ricordato anche come essere uno dei peggiori. Per il film per il quale era stata nominata, Priscilla, la regina del deserto, l’allora ventinovenne costumista australiana confezionò un abito con 254 carte di credito American Express Gold scadute che però, per negato consenso da parte della compagnia leader nel settore finanziario, non vide la luce nel set.
Rimasto in circolazione, il vestito ebbe il suo momento di gloria alla cerimonia degli Oscar del 1995. La Gardiner, al verde, non avendo niente da mettere ripiegò su quell’outfit esagerato che riuscì a indignare non poche benpensanti. Nonostante questo, l’abito, forte della sua fama, nel 1999 è stato battuto all’asta da Christie’s fruttando quasi 13mila dollari per la ricerca sull’AIDS mentre nel 2017 il brand newyorkese Vaquera invece ne ha rispolverato il ricordo per la fashion week di quell’anno con un omaggio chiaro all’episodio di oltre vent’anni prima.
Una menzione particolare va a un’altra veterana, Jenny Beavan. Ha stretto tra le sue mani la statuetta per Mad Max: Fury Road indossando un completo da biker come se fosse una delle protagoniste del film. La giacca di pelle infatti aveva sulla schiena un teschio fiammeggiante fatto di cristalli.
Certo, da un lato era un costume di scena ma dall’altro anche l’abito scelto da chi non porta i tacchi e non si inguaina per occasioni di quel tipo. «Non mi interessa la moda, sono una storyteller, io» disse a chi le chiedeva conto di quell’uscita non compresa fino in fondo. Del resto, se si sceglie di raccontare storie attraverso gli abiti, è forse naturale salire sul palco stando sempre un passo indietro alla propria visione. In fin dei conti, è quello ciò per cui si viene premiati.
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