Il 24 aprile di otto anni fa crollava il Rana Plaza a Dhaka, in Bangladesh. 1.138 persone, per lo più giovani donne, hanno perso la vita e altre 2.500 circa sono rimaste ferite. È il quarto più grande disastro industriale della storia, potremmo definirlo il Ground Zero del mondo della moda: gli otto piani dell’edificio che ospitava imprese tessili hanno ceduto sotto il peso del ritmo insaziabile della fashion industry, che ha costretto questi lavoratori dell’abbigliamento a continuare a lavorare, nonostante nei giorni precedenti il disastro fossero comparse delle crepe nei muri.
Ebbene, Fashion Revolution è nata proprio per garantire che nessuna tragedia di questa portata potesse mai ripetersi. E la scorsa settimana, dal 19 al 25 aprile, il movimento globale che mira a sensibilizzare i consumatori sulle loro abitudini di acquisto e si batte per un’industria della moda più equa ed etica, ha celebrato la sua settimana della moda, la Fashion Revolution Week, che quest’anno chiede al settore e ai governi di riconoscere l’interconnessione tra diritti umani e diritti della natura. Sono stati sette giorni con un palinsesto ricco di appuntamenti, talk, tavole rotonde, dirette social – tutto rigorosamente virtuale – per discutere dei cambiamenti che il settore deve mettere in atto per essere più inclusivo e più rispettoso dell’ambiente e delle persone, e per conoscere da vicino i protagonisti della moda sostenibile all’interno del progetto Open Studio, la piattaforma che quest’anno ha messo in luce innovazione sostenibile, artigianato locale, patrimonio culturale locale, modelli di business rigenerativi ed equi e nuove tecnologie di oltre 60 designer provenienti da 21 Paesi in Europa, Africa, Asia e Sud America.
C’è stato di tutto e in tutto il mondo. Guardando ai nostri confini, la designer Chiara Catalano, che interviene con la sua arte su capi vintage, usa i tessuti come tele e poster per veicolare il suo messaggio, dando un nuovo significato a materiali di recupero, ha realizzato una video performance ambientata a Palermo lungo una costa inquinata, dove gli abiti dipinti a mano da lei stessa urlano il loro messaggio: Save the planet.
Blue of a kind, il brand di denim sostenibile, ha raccontato l’intero processo produttivo, a partire dalla ricerca di capi vintage alla loro nuova vita. Flavia La Rocca, vincitrice del Franca Sozzani GCFA Award for Best Emerging Designer ai Green Carpet Fashion Awards del 2019, ha fatto una diretta social nello spazio di Cittadellarte Fashion B.E.S.T. della Fondazione Pistoletto per raccontare come nasce un pezzo modulare mostrando tutto il processo produttivo, dal disegno, al cartamodello e al campione, alla tintura del tessuto in modo naturale. Tanti anche i talk, uno fra tutti quello tra Fashion Revolution e la World Fair Trade Organization su come le imprese sociali possano aiutare a costruire relazioni e garantire i diritti dei produttori in tutto il mondo; e i webinar, tra cui quello tenuto dalla Cultural Intellectual Property Rights Initiative sulla sostenibilità culturale.
È stata anche lanciata una sfida social in collaborazione con l’associazione Dress The Change: si tratta della #impattochallenge che punta a sensibilizzare i consumatori su cosa si cela dietro ai loro vestiti e li stimola ad agire concretamente per ridurre l’impatto sociale del loro armadio. Ma soprattutto è stata inaugurata ARTivism, la mostra digitale curata da Stella Stone che sarà visitabile (virtualmente) fino a fine ottobre 2021. Il progetto è il frutto di una call to action e un concorso lanciati da Fashion Revolution Italia e Fondazione Pistoletto a dicembre 2020, per ispirare artisti e creativi a dar forma alla giustizia sociale e ambientale attraverso la loro arte. Una commissione tecnica ha selezionato 40 opere digitali tra quelle di oltre 90 artisti che hanno risposto all’iniziativa, visibili nello spazio virtuale Ikonospace. Gli artisti non avevano alcun paletto se non quello di esprimersi in totale libertà per ridefinire la narrativa e i paradigmi della moda sostenibile. Il risultato è un insieme di opere che invitano a riflettere su come intraprendere un percorso costruttivo e che sottolineano l’urgenza di un’azione collettiva.
«Per la prima edizione di ARTivism abbiamo selezionato opere eterogenee che, con approcci culturali diversi, messaggi morali ed etici, espressioni digitali e artigiane, ci chiamano all’azione – spiega Stella Stone –. Abbiamo voluto dare priorità alla qualità e alla rappresentazione della diversità. Crediamo che ogni singolo artista selezionato sia manifesto di una verità capace di innescare curiosità e dialogo, il primo passo per un cambiamento collettivo».
Cambiamento che passa anche attraverso l’azione di ciascuno di noi. Uno degli obiettivi della Fashion Revolution Week, infatti, è stato quello di coinvolgere chiunque volesse partecipare attivamente alla «rivoluzione». I modi erano – e sono – tanti: si può cominciare con il chiedere ai brand chi ha fatto i nostri abiti e cosa contengono, attraverso gli hashtag #WhoMadeMyClothes e #WhatsInMyClothes sui social, o anche scrivendo loro una mail o lasciando una review volte ad approfondire il processo di produzione dei capi; si possono poi invitare gli amici a prendere parte alla campagna perché «più siamo e più la nostra voce non potrà essere ignorata»; infine, la Get Involved guide di Fashion Revolution prevede anche la possibilità di stampare o disegnare un poster da appendere sulla vetrina del proprio negozio o sulla finestra di casa.
Insomma, ognuno può e deve fare la sua parte. Da quel 24 aprile 2013 sono stati fatti alcuni passi avanti ma le condizioni dei lavoratori lungo tutta la supply chain della moda globale – soprattutto in quei Paesi dove il costo della manodopera è molto basso – sono spesso ancora inaccettabili. E lo sono a causa del peso schiacciante dei volumi degli ordini, dei termini di consegna troppo ravvicinati, dei prezzi costantemente al ribasso e della mancanza di garanzia sulle commesse, che costringono molti fornitori al perdurare di certe violazioni. Specialmente per quanto riguarda i salari e gli orari di lavoro. È una stortura che comincia qui da noi, in Occidente, proprio da quei grandi brand a cui Fashion Revolution vorrebbe tutti chiedessimo più trasparenza e tracciabilità della filiera. E anche se sono state tante le promesse dei marchi all’inizio della pandemia, che auspicavano un ritorno a ritmi più lenti di produzione, è necessario un ripensamento globale del concetto di responsabilità e sostenibilità. Da parte di tutti: brand, fornitori e consumatori. Perché, come ha spiegato bene nel suo libro Marina Spadafora, coordinatrice di Fashion Revolution Italia, «la rivoluzione comincia dal tuo armadio».
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