«Pensi che Elisabetta sarà l’ultima regina d’Inghilterra?». Era questa la domanda che il 2 giugno 1953 una reporter americana rivolgeva alle persone accalcate davanti a Buckingham Palace per partecipare all’incoronazione della loro sovrana. L’inviata, una dei duemila giornalisti arrivati a Londra da tutto il mondo, aveva una rubrica tutta sua sul quotidiano Washington Times-Herald dal titolo Inquiring Camera Girl che consisteva in una domanda su un tema di attualità, la risposta e lo scatto della persona intervistata. Quella donna con il taccuino e la macchina fotografica, che si chiamava Jacqueline Bouvier, sarebbe diventata la First Lady americana sposando John Fitzgerald Kennedy tre mesi e qualche giorno dopo.
In quella domanda all’apparenza semplice c’è tutta la forza di un destino che ha voluto che Elisabetta salisse al trono a tutti i costi.
I piani per la figlia maggiore dell’allora duca di York, quel Bertie che abbiamo imparato a conoscere con film e serie tv, e di Elizabeth Bowes-Lyon, era quello di fare la principessa di campagna circondata da corgi e cavalli finché lo zio, re Edoardo VIII, nel dicembre del 1936 non decise che la corona non faceva per lui, rispendendola al mittente in nome dell’amore per l’americana Wallis Simpson. Con il passaggio dello scettro al fratello che diventò, suo malgrado, Giorgio VI, la storia deragliava e investiva di infinite responsabilità la sua primogenita.
Responsabilità che non tardarono molto ad arrivare. Quando Elisabetta fu incoronata regina aveva 27 anni. Il padre era morto nel febbraio del 1952 ma per organizzare la cerimonia ci volle il tempo necessario per superare il lutto, almeno nella forma, e i tempi tecnici per pianificare ogni dettaglio di un evento che sarebbe stato trasmesso in mondovisione: mai, prima di quel momento, un’incoronazione era passata dal piccolo schermo. Nella leggenda però ci si può entrare solo avvolti in un capolavoro e nella rubrica di Buckingham Palace c’era solo un nome all’altezza del compito: Norman Hartnell.
Quando la chiamata arrivò all’atelier di Bruton Street, era un pomeriggio dell’ottobre del 1952. Elisabetta sapeva di andare a colpo sicuro. Non furono molte le indicazioni date a colui che cinque anni prima le aveva confezionato l’abito da sposa: quella doveva essere la base da cui partire per questa intrepida avventura sartoriale.
Lo stilista vestiva le donne della famiglia reale dagli anni 30. Hartnell deve parte della sua fortuna a Giorgio VI che per sua moglie desiderava un guardaroba lontano dalle lusinghe della moda del tempo. Edoardo VIII e Wallis Simpson erano troppo moderni anche nello stile. Il tentativo di superare lo shock dell’abdicazione passava anche da abiti eleganti che nell’estetica fossero più vicini alla regina Vittoria che a Elsa Schiaparelli o Christian Dior. Per indirizzare il suo estro verso qualcosa di più tradizionale, il re portava il couturier a spasso nelle collezioni reali confidando che i ritratti delle regine precedenti lo conducessero a disegnare mise dalle sottane lunghe e vaporose, a costo di essere giudicato un po’ démodé.
Hartnell per la commissione della vita si tuffò in uno studio matto e disperatissimo e, memore delle giornate in compagnia del padre della regina, visitò il London Museum e la London Library in cerca di ispirazione.
Con la testa piena di idee, lo stilista lasciò l’affollata capitale per le foreste di Windsor dove cominciò a disegnare proprio come fanno gli artisti. Hartnell in tutto preparò otto schizzi più uno: dal primo filologicamente somigliante a quello della regina Vittoria in raso bianco brillante e pochi fronzoli si passò per gradi a modelli più elaborati dove fece la sua comparsa anche il colore oltre all’oro e all’argento insieme a motivi naturali e simbolici. L’ultimo disegno, quello che rispondeva a tutti i desideri della regina, fu frutto di un confronto che consegnò l’abito alla storia così come lo conosciamo.
Sul raso bianco sarebbero stati ricamati oltre agli emblemi del Regno Unito anche quelli dei paesi del Commonwealth come suggerito dal marito di Elisabetta, Filippo. Ora si trattava di mettere tutto insieme con misura e non fu semplice trovare l’armonia perfetta tra tutti le icone che dovevano trovare la loro giusta collocazione sul vestito. La rosa Tudor rappresentava l’Inghilterra, il cardo la Scozia, il trifoglio per l’Irlanda del Nord e per il Galles il narciso. Quando Hartnell sottopose il ricamo al re d’armi della Giarrettiera, il responsabile per l’araldica trasecolò alla vista del fiore primaverile. «Non ti darò mai un narciso! L’emblema corretto del Galles è il porro!» esclamò sconvolto l’ufficiale gettando nello sconforto lo stilista.
«Ho convenuto che il porro fosse un ortaggio ammirevole, pieno di significato storico e senza dubbio di proprietà salutari ma non proprio noto per la sua bellezza» raccontò Hartnell nella sua autobiografia Silver and Gold «non poteva permettermi di usare invece il più grazioso narciso?». «No, Hartnell. Devi usare il porro» gli rispose l’inflessibile ufficiale. Come lo metto un porro in un vestito per una regina? Si deve essere chiesto con la coda tra le gambe il raffinato designer. Una volta tornato nel suo ritiro di Windsor, fu colto da illuminazione nell’orto in cui si era rifugiato per capire come rendere regale quella verdura buona per una zuppa più che un evento di quella portata nell’abbazia di Westminster: e fu così che si ricordò del distintivo del berretto delle guardie gallesi. «Alla fine, utilizzando sete adorabili e cospargendola con la rugiada dei diamanti, siamo stati in grado di trasformare il porro terroso nella visione del fascino di Cenerentola, degno di mescolarsi con le sue sorelle rose e mimose in una brillante assemblea reale, abbellendo l’abito di una regina» scrisse nelle sue memorie.
Il resto dei motivi naturali erano decisamente più semplici: la foglia d’acero per il Canada, la mimosa per l’Australia, la felce per la Nuova Zelanda, la protea per il Sudafrica, il fiore di loto per l’India e per Ceylon, il grano, il cotone e la iuta per il Pakistan. I vari emblemi in questo modo, come da richiesta della committente, portarono quel colore che avrebbe distinto questo vestito da quello del matrimonio in cui il bianco e l’argento erano prevalenti. Ottenuta l’approvazione reale, Hartnell si mise subito al lavoro. La seta, arrivata dalla fattoria di Lady Hart Dyke del Castello di Lullington nel Kent, tessuta successivamente dalla Warner&Sons nell’Essex, è stata usata per foderare anche il mantello bordato di ermellino di velluto color cremisi con cui Elisabetta ha fatto il suo ingresso a Westminster, realizzato dai più vecchi sarti di Londra, la ditta Ede&Ravenscroft. Per l’abito furono usati, oltre a fili d’oro, d’argento e di sete di tinte varie, diamanti, perle e pietre preziose, cristalli e paillettes e tremila ore di lavoro di sei ricamatrici esperte che si occuparono in quei mesi del delicato reticolo di simboli.
Le prove cominciate nel Natale del 1952 servirono per mettere a punto il modello. Furono aggiunti rinforzi di taffetà e crinoline per dare stabilità alla gonna che così ampia si contrapponeva al corpetto aderente con le maniche corte e il taglio quadrato sulle spalle e la scollatura a cuore. A tre giorni dall’incoronazione, non senza patema, Norman Hartnell finalmente consegnò l’abito finito. Elisabetta infilò il suo corpo in quella creazione preziosa come un gioiello e, davanti allo specchio, tirata su la cerniera lampo sulla schiena e chiusi tutti i gancetti di sicurezza, si lasciò scappare un «Glorious!». Il sarto, forse per la prima volta da mesi, poté tirare un sospiro di sollievo. Alla fine quel quadrifoglio che aveva aggiunto in gran segreto sul lato sinistro dell’abito alla fine aveva portato fortuna più a lui che alla sua regina.
A Westminster Elisabetta si presentò con il mantello cremisi e il diadema di stato di Giorgio IV realizzato nel 1820 in cui sono presenti rose, trifogli e cardi realizzato con 1333 diamanti (oltre a uno giallo incastonato in una croce) appoggiati su 169 perle montati su argento rivestito in oro: quella testa coronata ci è familiare perché è quella che vediamo sui francobolli e nelle raffigurazioni più diffuse della monarca. Le scarpe invece furono realizzate a Parigi da Roger Vivier: si trattava di un paio di sandali in pelle dorata con motivo fleur-de-lys con un tacco, non troppo scomodo, tempestato di rubini. La lunghezza dell’abito non ha lasciato loro tanto spazio ma per non esercitare troppo la fantasia ci arriva in soccorso la maison che, sotto la direzione artistica di Gherardo Felloni, ha riproposto le calzature nella collezione primavera-estate 2020.
La regina non era sola: con lei sei damigelle vestite in abiti coordinati di raso bianco ricamati con fiori di perle e piccole foglie d’oro, confezionati anche questi dall’atelier di Norman Hartnell così come quelli indossati dalle altre donne della famiglia reale, tra cui la regina madre e la principessa Margaret. La collana e gli orecchini di diamanti facevano parte della collezione della regina Vittoria, gioielli che avevano adornato il collo e i lobi di altre regine all’incoronazione dei mariti: Alexandra nel 1902 (senza gli orecchini), la regina Mary nel 1911 e la regina Elisabetta madre nel 1937.
La cerimonia, durata circa tre ore, era piuttosto complessa. Siccome a quel tempo controllare l’ora era considerata un’abitudine sconveniente per le donne, Elisabetta aveva al polso un minuscolo orologio di diamanti di Jaeger-LeCoultre, dono dell’allora presidente della Francia Vincent Auriol, alimentato dal più piccolo movimento meccanico del mondo che lo rendeva pressoché impercettibile quantomeno nella sua funzione principale. Chissà se buttò un occhio al quadrante quando arrivò il momento dell’unzione. A quel punto l’abito della regina veniva coperto con una veste spartana, anch’essa realizzata da Hartnell, che doveva andare a coprire interamente il capolavoro che lui stesso aveva creato. Il nome tecnico di questa sorta di scamiciato di lino plissettato e candido, chiuso sulla schiena con grandi bottoni per facili e rapide vestizioni, è colobium sindonis.
Spogliata di tutto e interdetta agli sguardi del mondo, Elisabetta diventava regina a tutti gli effetti e capo della chiesa d’Inghilterra. Le telecamere della BBC tutto avevano inquadrato fuorché quel momento: la magia di quel processo non doveva perdere il suo mistero anche se diventava uno spettacolo mainstream che finiva nelle case della gente di mezzo mondo. Per il rito vero e proprio, venne usata la corona di Sant’Edoardo: un cimelio del 1661 di oro massiccio che pesava circa 2 chili e mezzo, così pensante che la regina temeva le si spezzasse il collo ma, alla fine della cerimonia, Elisabetta lasciò Westminster con la corona imperiale di stato che, oltre a contenere diamanti e pietre preziose di inestimabile valore, sono adornate con gli orecchini di perle di Elisabetta I. Diretta a Buckingham Palace, anche il mantello cambiò diventando viola: lungo più di sei metri, aveva richiesto in totale di 3500 ore di lavoro alle sarte della Royal School of Needlework per ricamare le iniziali di Elisabetta, spighe di grano e rami di ulivo come augurio di pace e prosperità.
Con la cerimonia dell’incoronazione, l’abito non fu messo in naftalina. Carico di significati e potente come un discorso pronunciato dalla giovane regina, era anche un capolavoro di diplomazia. Per questo accompagnò Elisabetta nel tour di sei mesi del Commonwealth. Con il vestito partecipò nel 1954 all’apertura del Parlamento in Nuova Zelanda, Australia e Ceylon (ora Sri Lanka). Sul Royal Yacht Britannia, il «monumento» aveva una cabina tutta sua. «La cabina del vestito era leggermente più grande della mia: ero piuttosto gelosa!» confessò l’allora dama di compagnia della regina Lady Pamela Hicks. In seguito, con quel vestito partecipò all’apertura del Parlamento in Canada nel 1957 e a un paio di ricevimenti, uno a Buckingham Palace e uno a Holyroodhouse Palace a Edimburgo.
Quel protagonista della storia ora è parte della Royal Collection. È stato messo in mostra insieme all’abito nuziale nel 2016 (e a tantissimi altri outfit regali) nel 2016 per la mostra Fashioning a Reign: 90 Years of Style from The Queen’s Wardrobe e potrebbe rispuntare per il Platinum Jubilee in programma il prossimo anno. Per il Giubileo di diamante del 2012 invece una replica esatta commissionata Swarovski fu esposta nelle vetrine di Harrod’s. Quella copia fece la fortuna della produzione di The Crown: se per la riproduzione fedele dell’abito nuziale non badarono a spese (si parla di 47mila sterline), qui per la scena cruciale interpretata da Clare Foy trovarono il costume già bello e fatto.
Per la sua devozione al guardaroba reale, Norman Hartnell fu il primo couturier a essere nominato cavaliere nel 1977, in occasione del Silver Jubilee. Invidiato anche da Christian Dior per la possibilità di vestire la casa reale britannica, il fashion knight era anche leale nei confronti della sua committenza. Pare che gli americani lo avessero corteggiato promettendo enormi fortune per avere i bozzetti dell’abito con lo scopo di metterlo in produzione non appena la regina fosse stata incoronata. Lui rifiutò entrando con eleganza nella storia del costume del XX secolo.
Tornando alla domanda della giornalista Bouvier, non sappiamo cosa risposero i suoi intervistati. L’erede al trono (il principe Carlo è il primo bambino che vide l’incoronazione della propria madre) è uomo ed è ancora lì che aspetta. Dopo di lui altri due uomini, William e George, sono i primi in linea di successione e chissà cosa sarà previsto dal cerimoniale per quel giorno e quali saranno i simboli da privilegiare. Una risposta sicura ancora non c’è e forse non ci sarà dato conoscerla nell’arco della nostra vita terrena. Certo è che, se pensiamo al meraviglioso racconto cucito letteralmente addosso alla regina andato in scena alla metà del secolo scorso con un rito fatto di ricchezza, opulenza e grandeur allora sì, se questo è il metro, Elisabetta sarà l’ultima regina d’Inghilterra.
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