Doveva essere la Perla d’Oriente. Quando Catherine Walker ha cominciato a immaginare l’abito che Diana avrebbe indossato per il tour di tre giorni a Hong Kong, voleva che la principessa potesse rendere omaggio in maniera appropriata al territorio che avrebbe ospitato lei e suo marito. Un vestito da sera abbinato a un bolero tempestato di perle e paillettes della stessa fattura non poteva essere quindi tributo migliore. Quell’ensemble bianco abbagliante è passato alla storia come Elvis dress. Dopo il Coronation dress della regina Elisabetta e il tailleur bianco con cui si è fidanzata Letizia Ortiz con il principe Felipe, è questa la storia che vogliamo raccontarvi oggi.
Catherine Walker per Diana non era solo la stilista di fiducia ma anche un’amica con la quale si poteva aprire mentre insieme buttavano giù idee per quelle centinaia e centinaia di vestiti (si parla di mille abiti) che la moglie dell’erede al trono d’Inghilterra avrebbe indossato nel suo paese e in giro per il mondo. Fu l’allora fashion director di British Vogue Anna Harvey a presentarle la designer: un sodalizio cominciato nel 1981, durante l’attesa di William, terminato nel 1997 con la scomparsa della principessa che fu seppellita ad Althorp con un abito nero firmato Walker, comprato inconsapevolmente qualche settimana prima di morire.
Ogni abito era frutto non solo dell’intimità e della confidenza ma anche dello studio. Catherine Walker, che aveva un master in iconografia, aveva aperto il suo atelier con il marito Said Cyrus nel 1977. Si erano conosciuti l’anno prima: lui era stato un insegnante alla Chelsea School of Art, lei frequentava i suoi corsi sul simbolismo nel design. La coppia non si limitava quindi a tagliare tessuti e a cucirli insieme ma attorno a un luogo o a un impegno della loro illustre cliente c’era una ricerca approfondita del contesto che li portava a lavorare con una sorta di metodo Stanislavskij applicato alla sartoria su misura. La couturière per l’apertura del Cultural Centre di Hong Kong aveva voluto miscelare bene ogni ingrediente, forse troppo.
Il portamento di Diana era quello di una regina se consideriamo che abbinato all’abito fu scelta la Cambridge Lover’s Knot tiara piena di diamanti e perle pendenti. Lo stile, inoltre, portava una firma britannica riconosciuta anche proprio in virtù di quell’alleanza quasi mecenatesca tra le due. Infine, sulla seta bianca erano state ricamate a mano oltre 20mila perle per donare ancora più enfasi all’omaggio all’Oriente: negli orli c’era addirittura un rinforzo di perline, una quantità di piccole sfere decorative che rendeva l’outfit tanto luminoso quanto pesante. «Dalle immagini non si vedeva è il peso del vestito, che era immenso» ha poi commentato la designer.
Una combinazione di regalità, eleganza e diplomazia che colpì tutto il mondo allora conosciuto ma che mise in ombra l’evento al quale Carlo e Diana erano stati invitati, facendo storcere qualche naso in quel di Hong Kong. «Ogni volta che la vedevo, pensavo che nessun’altra come lei avrebbe potuto indossare quel vestito e quel bolero» dichiarò Catherine Walker «lei brillava nell’abito e l’abito brillava attorno a lei in una colonna scintillante di perle luccicanti». Certo, tutte quelle perle aiutavano a rendere imperitura quell’immagine ma la personalità e quel sorriso hanno contribuito a scrivere questo capitolo di storia del costume con buona pace di chi quell’8 novembre 1989 si è risentito a causa del bagliore della principessa.
L’Elvis dress è ancora oggi uno degli abiti più legati all’immaginario di Diana, tanto che la rivista Tatler ha scelto proprio una foto scattata a quell’evento per la copertina dedicata al suo mancato sessantesimo compleanno che cadrà il prossimo 1 luglio. Quello che nelle immagini che ci sono state restituite di quell’occasione non vediamo è l’irresistibile tocco glamour dell’abito: quel lungo vestito con spacco laterale fino al ginocchio destro è in realtà un tubino disegnato senza spalline.
Catherine Walker aveva nascosto le atletiche spalle di Diana sotto un bolero a mezze maniche che, in una geometria perfetta, riuscivano a inquadrare il volto della principessa incastonandolo tra due lembi rialzati all’altezza del collo. Quel dettaglio, una citazione delle gorgiere elisabettiane, si è dimostrato il colpo di genio che alla fine ha dato il nome con cui l’outfit sarà ricordato in eterno. La leggenda narra che proprio la stessa Diana, guardandosi allo specchio, si paragonò all’Elvis Presley nel suo periodo a Las Vegas per via di quelle punte rigide rivestite di perle.
L’evento a Hong Kong, tuttavia, non fu la prima volta che Diana indossò quell’abito. Il debutto vero e proprio fu sul red carpet dei British Fashion Awards, il 17 ottobre 1989. Ospite d’onore dell’evento, con l’incarico di premiare il designer dell’anno, probabilmente moriva dalla voglia di dare una visibilità importante a quel completo che metteva insieme moda e saper fare britannico. Catherine Walker, dal canto suo, ha sempre lavorato nel suo atelier, mai colta dal desiderio di tuffarsi nel rutilante mondo delle fashion week o altre situazioni del genere. Soddisfatta evidentemente dalla prova generale dell’abito, Diana inviò un biglietto di ringraziamento alla sua defilata stilista personale. «Grazie alla mia designer dell’anno!» le scrisse.
L’anno dopo la coppia reale viaggiò in Ungheria per una visita di quattro giorni. Per la cena di stato organizzata alla presenza del presidente neoeletto Arpad Goencz, Diana scelse di nuovo il dress senza l’Elvis effect però: è negli scatti a Budapest che possiamo vedere il tubino in tutto il suo splendore. A impreziosire questa nuova versione dell’abito, la principessa ha scelto il girocollo a sette fili perle su cui era montato l’enorme zaffiro circondato di diamanti ricevuto in dono dalla regina madre. Un gioiello identitario di Diana, indossato sempre con i suoi outfit più importanti: ce lo ricordiamo bene abbinato qualche anno prima al Travolta dress sfoggiato alla Casa Bianca e al Revenge dress alla Serpentine Gallery qualche anno dopo.
Tracce dell’Elvis dress ricompaiono nei ritratti ufficiali scattati dal fotografo Terence Donovan poco prima della separazione da Carlo nel 1992 e, dopo un lungo soggiorno nel guardaroba di Kensington Palace, l’abito insieme ad altre 78 creazioni su misura volò a New York nel 1997 per la famosa asta di Christie’s. L’idea di liberare l’armadio per raccogliere fondi a sostegno della lotta all’AIDS si racconta sia venuta a William. La curatrice Meredith Etherington-Smith, chiamata a Londra per visionare il patrimonio da organizzare in lotti, spifferò che il primogenito di Diana non amava quell’abito. «Mamma, è troppo orribile per essere venduto!» disse l’ingenuo principe.
A smentire il ragazzo non ci pensò solo la storia ma anche l’agguerritissima coppia composta da Lynda e Stewart Resnick, allora proprietari di un’azienda americana di souvenir, la Franklin Mint. I due si aggiudicarono il completo tubino e giacca per 151mila dollari, secondo solo all’abito che sbancò all’asta, il leggendario Travolta dress acquistato per poco più di 220 mila dollari. La data del 25 giugno 1997 segnò però per l’Elvis dress un periodo piuttosto turbolento fatto di battaglie legali e usi dubbi della memoria di Diana.
Da programma i Resnick non volevano sfruttare commercialmente la conquista ma poco dopo la Franklin Mint presentò la domanda per riprodurre una bambola di porcellana vestita proprio con quell’abito. La signora Lynda chiese al suo staff di contare quante perle ci fossero su quello che era diventato il suo abito, facendoci sapere che erano ben 22.000 quelle cucite a mano. Per fare le cose fatte per bene – e per scriverlo sul certificato di autenticità – sulla replica in miniatura ce ne finirono 2mila di perline, una giusta proporzione per una statuina di una trentina di centimetri che ancora oggi circola indisturbata su eBay a prezzi non esagerati.
L’appetito vien mangiando, figuriamoci dopo la prematura morte della principessa. La Franklin Mint continuava a chiedere autorizzazioni per le sue bamboline, permessi che il fondo che gestiva la memoria di Diana non concedeva. L’azienda se ne infischiò, continuando a usare l’immagine di Diana. Cominciò una guerra che portò a un enorme dispendio di risorse per l’ente che si vide costretto a limitare l’erogazione di contributi alle cause che patrocinava in memoriam. Nel 2004 però le parti si accordarono e, anche a causa di questo tira-e-molla poco edificante, l’abito diventò sempre più leggendario.
Nel 2006 finalmente la triste vicenda ebbe un felice epilogo: la Franklin Mint donò l’Elvis dress al Victoria and Albert Museum. Si trattò della prima acquisizione del V&A proveniente dal celeberrimo guardaroba di Diana. L’Elvis dress da quell’anno ha avuto due momenti di rinnovata popolarità. Il primo è stato alla mostra organizzata nel 2012 Ballgowns: British Glamour Since 1950 in cui sono stati esposti gli abiti da ballo che hanno fatto la storia della moda britannica. Nel 2017, invece, è diventato uno degli outfit protagonisti di Diana: her fashion story, l’esposizione dedicata alla principessa a vent’anni dalla tragica scomparsa.
«Diana capiva molto bene il linguaggio dei vestiti, la moda la aiutava a comunicare tutti i diversi ruoli che erano importanti per lei: diplomatica, mecenate, filantropa e, ovviamente, principessa» dichiarò la curatrice della mostra Eleri Lynn, sottolineando anche il ruolo fondamentale che in tutto questo ebbe Catherine Walker nel costruire un look immortale forgiando quella che potrebbe essere definita una «uniforme reale» piena di glitter e perline oltre che di glamour.
Nella scheda delle collezioni del V&A Museum dedicata al completo c’è scritto che al momento l’abito non è in mostra ma specifica che non lo è nella loro sede. Come abbiamo scritto sopra, il 1 luglio sarà il sessantesimo compleanno di Diana e Londra non mancherà di festeggiarla. Uno dei modi per celebrarla potrebbe essere inserire l’abito nell’esposizione Royal style in the making in programma dal 3 giugno al 2 gennaio 2021. Gli organizzatori hanno già spoilerato che l’abito da sposa della principessa sarà tra le principali attrazioni. Non c’è due senza tre (mostre): quale occasione migliore per accendere di nuovo i riflettori sull’Elvis dress togliendolo dal buio di un archivio. Un tale capolavoro, insieme a tutte le storie che può raccontare, merita tutta la luce che può emanare.
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