I dieci comandamenti della moda sostenibile. Un argomento ormai non più trascurabile, da approfondire con chi se ne intende davvero.
1. Scoprite gli eventi che propongono nuovi brand
Le collezioni green dei grandi marchi fanno brillare gli occhi, ma ammettiamolo: di meno noti, quanti ne conoscete? A svelarli ci pensano fiere fashion come White a Milano. Il suo fondatore, Massimiliano Bizzi, ha lanciato la manifestazione WSM Fashion Reboot (dedicata a brand sostenibili) curata da Matteo Ward, che ci indica qualche nome emergente: «Con Fili Pari, due scienziate hanno sviluppato una membrana recuperando polvere di marmo per creare parka ignifughi e idrorepellenti; fra le calzature, la start up ACBC ha proposto una gamma di suole e tomaie combinabili con una zip». Si passa all’upcycling, creando nuovi abiti da capi smessi. «Vanta Design Studio utilizza materiali destinati allo smaltimento e Yekaterina Ivankova (@yekaterinaivankova_official_) crea capispalla d’alta gamma, unendo modelli usati». E poi Progetto Quid, cooperativa veneta dove il percorso di recupero è duplice: a rimettere in circolo splendidi tessuti sono donne che fanno di questa attività la loro seconda chance di vita.
2. Comprate on line
Poco tempo per cercare? Il web corre in aiuto. «Su FashionRevolution.org si trovano tanti dati: a fine aprile verrà pubblicata una mappa di luoghi in cui in Italia si può comprare moda sostenibile» consiglia Marina Spadafora, consulente e coordinatrice nazionale di Fashion Revolution Italia. «Da tenere presente anche Good On You, riferimento informativo a livello internazionale che, anche nella App, valuta l’impatto ambientale di molti brand. In Italia è Il Vestito Verde (ilvestitoverde.com) a proporre un database di marchi bio vegani e handmade per uomo, donna e bambino». Tra Milano e Berlino è nato Staiy (Staiy.com), piattaforma e-commerce scelta da Matteo Ward fra le più efficienti: il suo algoritmo personalizza la proposta di capi in base a ciò che, nella ricerca, è preferito dall’utente.
3. Prendetevi cura dei vostri capi
Sapevate che il 90 per cento delle microplastiche nell’oceano arriva dalla Terra? Dall’abrasione di penumatici all’usura degli edifici. «In acqua finiscono milioni di microfibre perché gli indumenti sono sempre più sintetici» spiega Claudia Chiozzotto, esperta in temi ambientali per l’associazione per la tutela dei consumatori Altroconsumo. Come parare il colpo? Migliorando il lavaggio casalingo. «Abbassate la temperatura: i capi spesso non sono così sporchi, e tanti detersivi sono testati per attivarsi anche a 30 gradi. Se le macchie sono impegnative trattiamole a parte». No agli additivi igienizzanti (salvo casi mirati) mentre per i cattivi odori che restano nella macchina basta programmare un lavaggio a vuoto con un bicchiere di aceto (non spesso: potrebbe rovinare plastica e metallo). «Per ammorbidire provate l’acido citrico, funziona anche come anticalcare. Si trova on line o nei negozi bio, in vaschetta ne bastano un paio di cucchiai».
4. Imparate cosa si nasconde dietro acronimi e sigle
Le certificazioni alimentari, per molti, non hanno più segreti: avere la stessa consapevolezza per la moda è sempre più importante. «La più diffusa nel tessile è Oeko-Tex standard 100, che ne certifica la sicurezza chimica; per tessuti realizzati con fibre da agricoltura biologica vale il certificato Gots (Global Organic Textile Standard)» spiega Aurora Magni, docente e Presidente di Blumine, società di consulenza specializzata in moda sostenibile. «Il GSR (Global Recycled Standard) garantisce che, nel prodotto, il materiale riciclato sia almeno del 20 per cento; il BCI (Best Cotton Initiative) valorizza l’aspetto etico: la fibra è coltivata nel rispetto dell’ambiente e dello sviluppo». E gli animali? Importante il noto Responsible Down Standard che certifica come le piume utilizzate provengano da allevamenti che non fanno soffrire gli animali impiegati.
5. Dialogate con l’abito fra etichette reali (e virtuali)
Ciò che è scritto racconta davvero tutto? «Non sempre quello che si legge è del tutto vero: un capo dichiarato made in Italy può essere stato confezionate in parte all’estero, con materiali di importazione. Diffidiamo anche di chi promette un capo “100 per cento cashmere” a poche decine di euro» prosegue Magni. Come ovviare? Informandosi sulle strategie dei brand: «Leggere il bilancio di sostenibilità nel sito dell’azienda e seguirne le campagne attive fra social e stampa ci aiuterà a capire l’intento della marca». Ma per conoscere a fondo il capo e “parlare” con lui attendiamo l’arrivo della Blockchain, l’etichetta trasparente; inquadrando un QR Code con il proprio smartphone potremo verificare che processi e materiali siano conformi agli standard.
6. Distinguete metalli preziosi e virtuosi
Nel gioiello nessun problema di materia prima: metalli e pietre vengono dalla natura. «Ma l’oro dev’essere tracciabile ed etico, e le gemme certificate. Più facile per le pietre preziose “classiche” più controllate, qualche problema di tracciabilità per le semi-preziose, che arrivano da ogni parte del mondo» spiega Marie-Claire Daveu, a capo della strategia di sviluppo sostenibile del Gruppo Kering. «Ci sono molti intermediari che si frappongono fra l’estrazione e l’acquisto finale, anche nell’oro riciclato; tenere conto della provenienza ne garantisce spesso i criteri etici». Qualche marchio interessante (e non troppo costoso)? Marina Spadafora, fra i tanti, cita i cuori del marchio SeeMe di Caterina Occhio, realizzati a mano da donne in Tunisia e Turchia. Il rispetto degli standard più elevati arriva con i monili geometrici di Arte Facta; mentre il premio luminosità va a Maria Sole Ferragamo che, con So-Le Studio, crea bijoux con scarti di pelle trasformati in metalliche forme scultoree.
7. Documentatevi con i guru
Studiare con le fonti giuste è indispensabile. «In Progettare per il mondo reale, nel 1971, Victor Papanek fu pioniere del design sostenibile: la progettazione responsabile, il riuso, il coinvolgimento delle minoranze… aveva già detto tutto» suggerisce Matteo Ward. «Sceglierei Loved Clothes Last, fanzine del sito Fashion Revolution dove si affrontano i temi del consumo d’abiti di massa, assieme a The True Cost, documentario di Andrew Morgan che indaga ciò che si nasconde dietro la realizzazione del fast fashion (acquistabile in streaming in italiano su truecostmovie.com). Infine, i libri di Sass Brown (autrice di Eco Moda, Ed. Logos), fra i massimi esperti di moda etica».
8. Acquisti compulsivi? Dite “no, grazie”
È la dopamina, il neurotrasmettitore capace di infondere piacere anche dopo ogni acquisto, a convincerci a comprare. Ma come fare a capire se il capo che state mettendo in borsa serve solo a ricevere una scarica di (rapida) felicità, o a vestirvi per (tanti) anni? Nel caso del fast fashion potreste chiedervi se, triplicandone il valore, lo comprereste ancora; durante i saldi invece, meglio fermarsi a riflettere se anche al prezzo originale quell’abito manterrebbe intatto il suo fascino. Se il desiderio di novità è irresistibile, on line i siti di usato bello e garantito sono tanti: dal celebre Vestiaire Collective al nuovo italiano Lampoo.com: che gratuitamente offre ritiro e reso. Per togliersi poi uno sfizio dal budget elevato c’è Revest.it: dove noleggiare abiti e accessori d’alta gamma messi a disposizione da chi, a sua volta, vuole far “fruttare” piccoli tesori.
9. Sposate lo sport “buono”
Tessuti tecnici, inserti plastici: la moda sportiva è sempre stata uno spauracchio anti-sostenibilità. «Per il suo alto tasso di innovazione oggi custodisce un mondo promettente» spiega Matteo Ward. «Meglio scegliere nuove fibre compostabili: perché se un capo viene ingegnerizzato con fibre riciclate, non vuol dire che sia anche riciclabile. Candiani, per esempio, ha creato un elastomero biodegradabile che rende i capi stretch e green. Poi c’è il nylon rigenerato Econyl, che riduce dell’80 per cento l’impatto sul riscaldamento globale rispetto a quello prodotto dal petrolio. Attenzione alla plastica recuperata dal mare e degradata dall’acqua salata! Per desalinizzarla si usa spesso molta energia, meglio informarsi bene».
10. Amate l’abito… fino alla fine
Se un capo sembra davvero da buttare, fatelo bene. Ad esempio nei contenitori posizionati in tantissime città. «Dal 2025 tutte le amministrazioni locali dovranno attrezzarsi: noi, raccogliamo indumenti di cui la gente non ha più bisogno per capire come gestirli» spiega Daniele Germiniani, Responsabile Progetti di Humana. Avete presente i grandi contenitori gialli (oltre 5mila) ormai comuni in molti quartieri? L’obiettivo è quello di trarre il maggior profitto dal capo: vendendolo o smaltendolo, senza farlo arrivare in discarica. «Se prima era possibile destinare al riutilizzo il 75 per cento di ciò che ricevevamo (nel 2018, oltre 75 milioni di vestiti), oggi la percentuale si è abbassata al 65 per cento: l’aumento di materia sintetica abbassa la qualità dei capi. Il consiglio è quello di destinare gli abiti smessi a contenitori qualificati, che riportino ben visibile nome, sito e numero di telefono: tanti sono quelli abusivi che vendono i capi in migliore condizione, senza gestire in modo corretto lo scarto, che finità solo per inquinare».
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