Stella McCartney: «Oggi è un altro giorno»
Stella McCartney: «Oggi è un altro giorno»
Stella McCartney: «Oggi è un altro giorno»
Stella McCartney: «Oggi è un altro giorno»
Stella McCartney: «Oggi è un altro giorno»
Stella McCartney: «Oggi è un altro giorno»
Stella McCartney: «Oggi è un altro giorno»

Questo articolo è pubblicato sul numero 15 di Vanity Fair in edicola fino al 13 aprile 2021

La legge della moda è semplice. Chi arriva prima, perde. Chi arriva dopo, perde. Vince solo chi arriva al momento giusto. «Allora datemi subito il
premio per la peggior stilista di sempre». Stella McCartney si muove nella propria casa in Inghilterra con il computer in mano. Ride, si aggiusta i capelli e poi sprofonda in un divano mentre ci risponde via Zoom. Veterana della moda sostenibile, ha iniziato per prima, spesso da sola, quasi sempre guardata come l’elefante nella cristalleria. «Hai presente quelle cene in cui ti arriva il tuo piatto vegetariano e quello di fianco a te ti guarda compatendoti per la purea di melanzana che sembra una cacca?».

Non proprio. Ma la domanda è: lei come reagiva?
«Come mia madre: mai fare la predica sugli animali morti e sull’ecologia perché nessuno ha voglia di ascoltare un proclama e tantomeno di essere aggredito a una cena. Di solito, ho imparato a prendermi in giro da sola, cercando di trovare il lato divertente della situazione. È il modo migliore di affrontare l’argomento. E di far pensare chi ti sta accanto senza passare per il senso di colpa».

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La leggerezza che vince sulla radicalità?
«Esatto! E l’ho sperimentato per tutta la mia vita. Per affrontare le conversazioni più scomode, e la sostenibilità è un argomento mooolto scomodo, è meglio procedere con leggerezza, con ironia e anche con un briciolo di glamour. Lo dico sempre: mantieni sexy la tua conversazione oppure nessuno ti ascolterà davvero. Perché nessuno vuole essere punito per quello che mangia o per quello che indossa. Meglio fargli capire quanto è bello, cool, divertente e anche figo essere green, sostenibili, vegetariani».

Torniamo alla sua carriera di designer: non si è mai sentita frustrata per aver visto che lei arrivava prima e poi un altro marchio, anni dopo, si ispirava palesemente ai suoi progetti e otteneva il doppio, forse il triplo del suo successo?
«E chi ha tempo per la frustrazione? Per pensare, per realizzare le nostre collezioni sostenibili e animal-free, per trovare le fabbriche che siano disposte a lavorare per noi, per concederci il lusso di sbagliare parecchie volte prima di realizzare una fibra o una pelle che non usi nulla di animale e che rispetti il pianeta, ci vogliono anni. E non è mai finita. E poi sa cosa le dico? Ma chi se ne frega della frustrazione! Non sono certo la tipa che ti fa la predica per dirti che è arrivata per prima! La frustrazione me la tengo per gli animali che vengono uccisi per ottenere una borsetta. Quello sì che è frustrante».

Lei ripete spesso che molto di quello che fa, molto di quello che pensa arrivi dall’esempio di sua madre. Quanto è stato importante avere una mamma così?
«Non sarei chi sono senza aver avuto una madre ma anche un padre così. Crescere sotto l’ala del loro esempio è stato come guardare una luce. Allo stesso tempo, però, con due personalità così potenti, a volte non dai credito a quello che fai. Io però l’ho fatto lo stesso, ci ho creduto e continuo a farlo».

Sua madre è scomparsa molti anni fa. Le manca?
«Mi manca tutti i giorni. Mi manca tutto di lei. Poi guardo al business che ha fondato, tantissimi anni fa, precisamente nel 1991, praticamente quando parlare di ecologia era davvero difficile. Oggi quello che ha fondato è uno dei brand vegetariani più famosi e cresce del 50% ogni anno. Lo trovo grandioso. Però, sì, mi manca tanto. Ma sa cosa mi manca di più? La sua luce».

Oggi lei sta provando a illuminare un grande gruppo del lusso, LVMH, con il suo esempio di moda sostenibile. Quanto c’è ancora da fare nell’industria della moda?
«Il problema non è quello che c’è da fare. Il problema è che siamo solo all’inizio. Le faccio un esempio. Noi sviluppiamo diversi materiali speciali in sostituzione della pelle animale o delle materie prime inquinanti. Ci vogliono anni, esperimenti, brevetti, collaborazioni. Ed è come col cibo organico: una mela biologica costa di più di una normale. Quindi, alla fine di ogni collezione ci troviamo con due questioni. La prima è il margine di guadagno, che diventa irrisorio se vuoi essere competitivo. E io voglio, pretendo di essere competitiva. A cosa servirebbero i miei sforzi se facessi abiti e accessori che solo pochissimi si possono permettere? Secondo: quando arrivi in certi mercati, come gli Stati Uniti, i nostri materiali animal free, non essendo riconosciuti come pelle animale, vengono tassati di più. E così un’azienda come la nostra viene penalizzata due volte. Lo ripeto: c’è molto, molto da fare. Anche a livello politico, non solo industriale. Io lo faccio da vent’anni e forse un giorno il caso del mio brand verrà studiato nella storia del costume e della sua rivoluzione. Ma questo non m’importa davvero. Ciò che m’importa, ciò che mi entusiasma è altro».

Che cosa?
«Le nuove generazioni. Sono loro che stanno forzando il cambiamento. Sono alla ricerca di valori, non di merci. E non puoi imbrogliarli perché se menti ti beccano subito. Li ammiro profondamente. Perché hanno capito che la rivoluzione dipende dalle azioni di tutti. Soprattutto da quelle dei consumatori».

Eppure c’è chi usa la sostenibilità per imbrogliarli. E arriviamo al tema del green washing: come ci si protegge, cosa si può fare?
«La risposta a questa domanda è tutta in chi la pone, ovvero in voi, nei media. I media oggi hanno il dovere di raccontare la verità e di smascherare le menzogne. Giornali, tivù, siti devono avere le palle per far capire chi fa sul serio e chi invece si lava la coscienza staccando un assegno per piantare qualche albero da qualche parte. La rivoluzione green è una questione di sostanza e di metodo. Non di marketing».

La pandemia ci ha aiutati a fare qualche passo in avanti?
«Sì, molti. Abbiamo capito ancora di più, per esempio, che per ogni nostra azione, ogni singola azione, esiste una reazione vera, reale, forte sul pianeta. Dalla salute all’economia, dalla politica alla moda».

A proposito di moda. Il suo impegno come designer ha influenzato molti altri settori. L’ho vista in un talk di Audi, per esempio. L’ennesima dimostrazione di quanto il suo operato sia significante?
«Più che altro l’ennesima dimostrazione di quello che c’è ancora da fare. Il mondo delle auto elettriche è cambiato molto e sicuramente per il meglio non solo grazie alle innovazioni ma anche per le politiche statali che hanno promosso incentivi per spingere industrie e consumatori a cambiare. Lo stesso meccanismo dovrebbe avvenire per il fashion system: finché lo Stato non interverrà con decisione tramite leggi e incentivi, tutto sarà lasciato solo ai privati. Ed è troppo poco. Bisogna arrivare più lontano».

Lei dove vorrebbe arrivare? Come si vede tra dieci anni?
«Vecchia. Ma viva, spero. Diciamo che preferisco pensare al presente, a quello che posso fare adesso».

E cosa si può fare di pratico, di semplice nel prossimo anno, diciamo nella prossima settimana, o meglio nei prossimi giorni?
«Smettere di pensare di fare la rivoluzione dalla sera alla mattina. O di cambiare il proprio stile di vita in un giorno. È meglio cominciare da piccole azioni. Come ridurre il consumo di carne animale. Se ci rinunci una volta alla settimana, per esempio, il risultato in termini di inquinamento è pari a vivere senza trasporti per una settimana. Lo dico sempre: un piccolo gesto contribuisce a un risultato di massa. Basta crederci. Basta farlo. Ora. Adesso. La sostenibilità non è il futuro. La sostenibilità è il presente».

Foto MARY McCARTNEY

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