Il tema transgender è di quelli delicatissimi: immaginate una creatura che si affaccia al periodo – già di per sé complicato – dell’adolescenza, in un corpo in cui non si riconosce. Immaginate il percorso, suo e della sua famiglia, nel momento in cui il coming out è inevitabile. Lasciando da parte tutte le difficoltà psicologiche e il supporto medico necessario, immaginate il bambino o la bambina alle prese con la scelta di abiti che si addicano alla sua identità di genere, al suo essere, la paura di trovarsi in un negozio e di essere giudicati, il timore di provare e riprovare vestiti sapendo che hai gli occhi puntati addosso.

Anche Nancy Dawson di Cincinnati, Ohio, mamma di tre (nella foto sopra), si è immaginata tutto questo e lo ha fatto grazie a sua figlia quindicenne, transgender, che all’età di 10 anni le ha comunicato di non essere un maschio, di non riconoscersi in questo genere. Da tempo Nancy sognava di poter aiutare i ragazzini in questa fase, nel passaggio da un’identità che non è la loro a quella che invece li fa sentire se stessi. Ma con un’attività impegnativa come la sua (da 15 anni è proprietaria del salone di bellezza per future spose, BrideFace), organizzare un negozio in casa era improponibile.

Poi vede online un meme di Tristan N. Vaught, transgender, attivista, educatore e direttore fondatore del Centro LGBTQ + presso l’Università dell’Indiana, alle spalle una laurea in Psicologia un master in Studi sulle donne, sul genere e sulla sessualità all’Università di Cincinnati,  in testa un’idea: offrire una  sorta di baby shower anche ai giovani transgender. I due si mettono in contatto, Nancy libera la stanza sul retro del suo salone, Trasform Cincy parte da lì insieme al supporto di Ella Fine, donna trangender molto attiva nella comunità di Cincinnati.

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Transform Cincy è un’organizzazione no-profit che lavora per cambiare la vita dei bambini transgender (6-18 anni) attraverso un semplice ma fondamentale gesto: mettere a disposizione un nuovo guardaroba (per ora dai 6 ai 18 anni, ma si punta ad ampliare il servizio agli over 18), che possa adattarsi alla loro identità di genere in uno spazio inclusivo e privo di giudizi. È poco più di uno stanzone adibito a boutique, in qualche angolo ha mura scrostate, mattoni a vista. Ma è uno spazio sacro.

Un santuario in cui ogni capo è gratuito, frutto di donazioni, per non pesare sull’economia dei giovani o delle loro famiglie. Ci sono stylist volontari pronti ad aiutarti. C’è il parrucchiere Bishop che offre tagli e acconciature, c’è la possibilità di avvalersi di un supporto psicologico… Insomma, un sostegno pratico a 360 gradi che, dallo scorso settembre, ha fatto passi da gigante, supportando tanti ragazzini e tante ragazzine e che ora cerca una nuova casa, più grande  e accogliente.

È davvero un problema così sentito, tra i giovani transgender, quello di avere un luogo in cui poter provare e trovare abiti adatti, prendendosi tutto il tempo e la serenità necessari, senza sentirsi addosso il giudizio degli altri? Perché qui in Italia a nessuno è ancora venuta questa idea? Lo abbiamo chiesto a Eva Robin’s, attrice e donna di spettacolo, che non ha  mai avuto problemi  a raccontare come stanno le cose.

Eva Robin’s. Foto Nicola Casamassima.

A Fashion Week terminate (Eva ha sfilato a Milano per Marco Rambaldi) ci ha spiegato che questo progetto le è piaciuto molto, ci ha parlato a ruota libera di cosa ne pensa e noi l’abbiamo lasciata fare. Perché in una società (e in un ambiente su tutti, quello della moda) che si dichiara inclusiva e che dice di voler abbattere le differenze di genere, saper ascoltare e poi accogliere le esigenze di chi deve essere «incluso» è il primo passo per poter trasformare gli slogan in gesti concreti e utili.

Ecco cosa ci ha raccontato Eva.
«Quando ho iniziato il mio passaggio da fanciullo a fanciulla, non ho mai avuto questo tipo di problema, non mi sono mai vergognata di dover scegliere abiti che sentissi davvero miei, ero già imberbe e avevo delle sembianze femminili. Da anni, ora, ci sono due grosse aziende fashion, Amen e P.A.R.O.S.H.  che mi forniscono i capi per le trasmissioni o le apparizioni pubbliche. Anche Diego Dolcini fornisce calzature per il Mit, Movimento Identità Transessuale. So di avere avuto una grande fortuna. Quando ti rendi conto che la tua identità di genere non combacia con quella effettiva, è un momento molto delicato e drammatico, senti sempre e comunque critiche e giudizi su di te, perché sei tu a ingrandirli, è la tua visione che non è ancora chiara a renderle ancora più pesanti. Perché stai facendo esperimenti su te stesso: c’è una forza che ti guida ma non sai dove ti porterà, se al cambio di sesso, se a un travestitismo anche feticista per quanto riguarda gli abiti femminili».

Continua Eva Robin’s: «Io avevo una mamma guerriera e un microcosmo che mi ha molto sostenuto: la prima forza la prendi lì. Poi devi essere libero di sperimentare e sperimentare all’infinito, perché ti stai scoprendo anche tu. Quindi applaudo l’idea di questa mamma di Cincinnati, la trovo una forma di libertà e di adesione molto potente. In Italia questo progetto potrebbe attecchire? Perché no! Non dimentichiamoci che abbiamo il Mit (ndr: associazione Onlus che difende e sostiene i diritti di transessuali, travestiti e transgender. È la prima fondata in Italia, nel 1979. Nel 1994 venne inaugurato il primo consultorio al mondo gestito direttamente da transessuali, grazie all’ottenimento di una sede da parte del comune di Bologna)».

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«È un fondamentale sostegno per le persone che iniziano questo percorso e che hanno bisogno di essere seguite da endocrinologi, psicologi, medici. Ma per quanto riguarda l’abbigliamento e la possibilità di modificare il tuo modo di entrare in società con degli abiti consoni alla tua psiche in trasformazione, come accade ai bruchi che diventano farfalle, non conosco iniziative del genere e sapere che qualcosa si muove fa solamente bene. È vero, in Italia abbiamo sempre fatto due passi avanti e due indietro, siamo un Paese di flussi e riflussi, ma non possiamo dire che riguardo a certi argomenti siamo rimasti retrogradi e ottusi».

«Secondo me se questo progetto venisse adeguatamente pubblicizzato, non solo i privati ma anche i brand di moda se ne interesserebbero. Basti pensare allo stesso Vladimir Luxuria, che è stato testimonial di un marchio fashion e io stessa sogno di poter fare da testimonial a un brand che ha il coraggio di realizzare una linea apposta. Dedicare uno spazio ai giovani transgender sarebbe un’iniziativa molto interessante e all’avanguardia  in questo nostro panorama, in cui si parla sempre di più di moda inclusiva e sempre meno di genere. Passare dalle parole ai fatti è indispensabile per progredire. E io sono molto fiduciosa».

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