Los Angeles, un tranquillo week end fra palme e cielo azzurro. La calma prima della tempesta. Rafael – un uomo gigantesco, abbronzatissimo, dagli occhi letali e dall’assenza di sorriso – sembra un agente segreto del Mossad. Invece è lo studio manager che ha il compito di fissare le regole. Dopo aver stabilito la fine dell’operazione alle 3 PM, una dozzina di professionisti si prepara a immortalare uno dei personaggi più chiacchierati, amati e odiati del 21esimo secolo. Un uomo detestato per la sua arguzia verbale, letale ma anche cristallina, per l’arroganza covata e fomentata da un’infanzia leggendaria (assenza familiare, razzismo, furti di biciclette), ma ampiamente meritata sul campo. E per la strafottente noncuranza del prossimo con cui si ritaglia tempo, spazio e denaro, oltre che per la scanzonatoria semplicità con cui si esprime fuori e dentro il rettangolo di gioco, dove ha collezionato 33 trofei – vincendo 11 campionati nazionali in Olanda, Italia, Spagna e Francia – con le più grandi squadre del mondo. I 540 goal all’attivo lo rendono di fatto uno dei più prolifici marcatori della storia del calcio. Si tratta di un personaggio così squisitamente controverso e di indubbio talento da essere ormai noto con un solo nome: Zlatan. Proprio come Elvis, Kobe, Pelé, Messi e Maradona.

Zlatan Ibrahimovic´ è un guerriero di due metri con la chioma folta e il naso serissimo, ma capace di un sorriso così prorompente e sincero da mettere subito a proprio agio. Scopriremo che è dotato di una simpatia travolgente, di un’umanità contagiosa e che il più delle volte parla di se stesso in terza persona. Segni particolari: non può fare a meno delle sfide, che gioca solo per vincere.

Per conoscere il suo passato basta leggere le due autobiografie,** I am Zlatan Ibrahimović I am Football: Zlatan Ibrahimović**. Per quanto riguarda il presente, ecco il resoconto di un incontro sincero e ricco di colpi di scena. Cominciato con questa premessa: «Ci sono calciatori che giocano a calcio e altri che pensano il calcio. Quando uno pensa inventa un nuovo modo di fare calcio, gli altri seguono e basta. Io amo fare la differenza. Non voglio fare bene solo una o due cose, voglio farle bene tutte. I ragazzi che giocano a calcio negli Stati Uniti devono capire questo semplice concetto: devi essere capace di fare tutto e nel modo migliore».

Per questo torna in Italia?

«No. Vado in una squadra che deve vincere di nuovo, che deve rinnovare la propria storia, che è in cerca di una sfida contro tutti. Solo così riuscirò a trovare gli stimoli necessari per sorprendervi ancora».

Come è finito al Galaxy?

«Ci sono arrivato in un momento di cambiamento personale. Mi ero fatto male con il Manchester United di Mourinho, avrei potuto giocare ancora con loro, ma mi serviva più tempo per essere al top. Quando è arrivata la possibilità di andare negli States mi sono detto che forse avevo bisogno di un fresh start. Non volevo deludere il mister. Nella prima partita, bahm! Gol storico e vincente nel derby 3-2 con i LAFC dell’odiato Carlos Vela. Zlatan leggenda da subito».

Non era la prima volta che segnava un gol da 40 metri, al volo…

«Per noi europei è normale. Per loro è stata un’esperienza extraterrestre. Giuro che quel gol mi ha seguito per mesi. Ero nel parcheggio: «Che gol!». Ero in tv oppure dai Lakers: «Che gol!». Dopo due anni ho detto basta. È stato un bel periodo, 53 reti in 58 partite. Ma è tempo di tornare in Europa. Sono molto contento di aver fatto questa esperienza, anche perché dopo l’infortunio molti dicevano che non sarei più stato in grado di giocare, invece ho dimostrato che posso ancora fare la differenza. Negli States c’è un’altra mentalità, tolto un paio di giocatori importanti per squadra, a causa del tetto salariale gli altri sono “normali”, devono ancora crescere sia come tecnica che come tattica. Per correre, corrono, fisicamente sono delle bestie».

Cosa pensa del VAR?

«Secondo me, nel dubbio bisogna sempre controllare. Gli arbitri negli Stati Uniti hanno molto da imparare: se fischi un rigore devi essere sicuro, e se ti dicono di controllare devi farlo, non puoi permetterti di essere egocentrico. Siamo esseri umani, sbagliamo tutti, l’importante è ammettere i propri errori. Nessuno è perfetto. Anche io sbaglio. Come si dice negli Usa: Better safe than sorry, la prudenza non è mai troppa».

E le nuove regole?

«Tipo 5 cambi invece di 3, o il Time Out? No, io sono tradizionale. Meglio finire 1-0 che 5-4. Certo per il pubblico è più bello da vedere, ma per me è sofferenza pura».

Cosa pensa del razzismo sugli spalti?

«Il tifoso vuole sempre disturbare il campione, ovvio non è bello per chi lo subisce. Non è solo un problema italiano, capita in tutto il mondo. L’importante è rimanere mentalmente forti e concentrati, nonostante gli insulti. Per risolvere questo problema bisogna essere inflessibili. Fermare il gioco per 3 minuti e poi farti tornare in campo non è la risposta. Sono anni che succede e non si risolve nulla. Per esempio, l’episodio con Balotelli o Koulibaly: sospendi la partita, e la squadra avversaria perde a tavolino». (…)

Come si è trovato negli Usa?

«Secondo me gli americani sono easy, ma dove vivo io, a Beverly Hills, un po’ freddi, distaccati. Per esempio non ho mai visto i miei vicini, non li conosco, non ci siamo mai salutati. Da una parte è meglio, perché non ti disturbano e tu non disturbi loro, ma ogni tanto sarebbe bello scambiarsi un «hello» e sapere chi sono nel caso succedesse qualcosa. Purtroppo non c’è il bar, come in Italia, dove puoi farti due chiacchiere, ma solo dei grandi mall con l’aria condizionata sparata al massimo dove fa un freddo cane. Però si sta bene, devo dire la verità, anche se mi è mancata la mentalità europea. Anzi, quella italiana, perché da voi c’è passione, quando parli con la gente ti senti più vivo. Un’altra cosa dell’America è che nessuno ha mai cash. All’inizio è bello, poi diventa una rottura di coglioni. E devi anche dare sempre un sacco di mance… Insomma, è un modo diverso di pensare».

Il bello degli americani?

«Nello show business sono il numero uno, nel marketing non li batte nessuno. Prima pensano ai soldi, poi a qualità e risultati. E va detto che da loro lo sport è costoso, molto costoso. Per esempio: per fare giocare i miei figli in una buona squadra di calcio per un campionato devo pagare 3.500 dollari a testa. Non è per la cifra, ma per il concetto. Tutto lo sport è a pagamento. E siccome i genitori pagano, vogliono vedere i figli giocare anche quando non sono bravi. Mi spiace molto perché non tutti hanno i soldi necessari e invece lo sport deve essere per tutti, perché unisce le razze e i popoli. Pelé è diventato un campione con niente, giocava con una palla di stracci… Il calcio è lo sport più bello del mondo».

Del calcio italiano cosa pensa?

«Vivere e giocare in Italia mi ha fatto diventare quello che sono oggi. Ero un attaccante anche prima, ma non così bravo. Capello mi ha insegnato tanto. Mi diceva: «Tu lavori per fare i gol. E devi aiutare la squadra a fare i gol. Le altre cose non contano, mi serve solo che segni». E mi spingeva. Tutti i giorni, dopo l’allenamento, mi metteva davanti alla porta con 5 o 6 difensori e per un’ora si andava avanti a cross e testate. E poi sono diventato quello che sono, e dalla Juventus sono andato all’Inter dove ho avuto una grande responsabilità, perché volevano vincere e avevano bisogno del mio aiuto. Ho giocato con grandi compagni che mi hanno aiutato a farlo. La squadra era fortissima. Vuole che le dica una cosa che non ho mai raccontato a nessuno?».

Intervista completa sul numero di dicembre di GQ – Foto di Joseph Degbadjo; styling di Oretta Corbelli. Fashion editor: Nicolò Andreoni. Hair stylist: Virginie Pineda. Make-up artist: Mina Abramovic

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